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2030: Odissea nella Costruzione?

Tradizione e innovazione, come si coniugano nel mercato delle Costruzioni

Coloro che, ad esempio, sovrintendono a un corso di laurea, che organizzano un evento fieristico o che presiedono una rappresentanza, di fronte al tema del cambiamento in atto nei mercati, specie internazionali, non possono che ricorrere alla espressione «tra tradizione e innovazione» che, tradotto in altro modo, vuole significare che non ci si può opporre ai mutamenti, che oggi si presumono rivelarsi epocali, di paradigma, come accade per la circolarità e per la digitalizzazione, ma si è, altresì, consapevoli delle forti resistenze che essi generano, tanto che sono sovente temuti e avversati, e delle necessarie contestualizzazioni a realtà specifiche.
Ciò deriva non solo dagli oneri che ci si immagina di dover sopportare per adottare i nuovi concetti, ma, soprattutto, dai problemi identitari che il rivolgimento evoca, cosicché si vorrebbe promettere agli studenti, ai visitatori o agli associati visioni avanzate, senza togliere, però, loro le rassicurazioni che implicitamente si attendono.
Da questo punto di vista, infatti, sussiste uno iato profondo tra la trasformazione, la riconfigurazione, addirittura, la reinvenzione del settore e quello che, volente o nolente, quest'ultimo è disposto ad accettare, tanto più che molti dei messaggi che giungono dalle consultancy internazionali difficilmente raggiungono la «pancia profonda» di operatori che, nel loro scetticismo, dovuto principalmente alla lunga recessione, stenterebbero, comunque, a impressionarsene e a ritrovarle nella propria quotidianità.
L'operatore, in effetti, è, al contempo, preoccupato della «tradizione», a causa della lunga fase recessiva che ha colpito il settore nel Nostro Paese, essendone provato, ma pure inquieto per l'«innovazione», di cui non è nelle condizioni di misurare la convenienza, il contributo che essa possa dare al rilancio del mercato.
Un osservatore, quindi, sarebbe tentato di domandarsi se le «profezie» di Accenture, BCG, KPMG, McKinsey, Roland Berger e altri, abbiano effettive chance di inverarsi in ambito nazionale o se coloro che cercano di diffondervi tali previsioni si agitino inutilmente in un ambiente abituato alla lentezza e poco sensibile alle prospettive.
Per quanto riguarda il Building Information Modeling (BIM), ad esempio, il divario che separa, nella progettazione, l'uso della clash detection dal ricorso all'artificial intelligence è evidentemente immenso.
Tra l'altro, con ogni probabilità, l'utilità dei nuovi metodi è direttamente proporzionale alla personalizzazione dei corrispondenti strumenti: il che ne accresce l'impegno.
Ragionare su ciò che potrebbe essere, dunque, il comparto al 2030 può, pertanto, apparire sterile, tanto più che le evoluzioni effettive si dipanano sempre in maniera differente da ciò che era stato preconizzato in precedenza.
In realtà, se nel 2000 si fosse previsto lo scenario attuale in toni millenaristici, si constaterebbe che esso non abbia certo avuto le connotazioni dirompenti che oggi si avanzano per il 2030, sicché probabilmente la situazione al 2000 potrebbe molto assomigliare al presente, ma, specialmente, è possibile che l'evoluzione sia ancora più differenziale.
Si può, però, domandarsi quali sarebbero le conseguenze se, al contrario, tutte le potenzialità oggi delineate si avverassero tra pochi lustri.
Ovviamente, il primo fattore da considerare è quello anagrafico, poiché occorrerebbe valutare il tasso di sostituzione della classe dirigente nel settore che si prevede possa avvenire nei tre lustri che verranno e il ruolo di influencer che potrebbero esercitare i millenial, ammesso che, come si vedrà in seguito, ad essi siano stati conferiti i saperi analogici, come contenuti indispensabili per gli sviluppi digitali: gli studenti e gli operatori, appunto, di cui si diceva.
Occorre, inoltre, presupporre che il tasso di localismo della base degli operatori si mitighi a causa di una crescente presenza dei competitor nazionali, anche di medie dimensioni, su mercati non domestici, accrescendone, al contrario, il livello di internazionalizzazione.
La familiarità con logiche differenti potrebbe, infatti, rendere la platea degli attori del mercato più disponibili ad accogliere modalità alternative nell'ottica di una ibridazione.
Prevedibilmente, la maggiore resistenza alle modificazioni sarà imputabile agli operatori più attempati, quelli più esperti, poco motivati ad adottare modi altri, ma non è detto che i profili formativi dei più giovani non siano condizionati da visioni arcaiche o semplicemente tradizionaliste ancora oggi predominanti, preoccupate di non turbare gli equilibri esistenti più che di aprire nuove prospettive.
Al di là di immaginare che al 2030 possano esservi solo committenze del tutto computazionali - ipotesi tutta da verificare - per la professione si immagina che molti processi «intellettuali» (leggasi prettamente amministrativi o tecnicamente poveri) siano stati sostituiti o ridotti come intensità da dispositivi legati all'intelligenza artificiale, che presiederebbe anche ai meccanismi decisionali semi-autonomi per la gestione dei lavori e per le attività di manutenzione.
Sarebbero così, attenuate le competenze amministrative dei committenti legati alla «legalità», gli apporti individuali degli ideatori relativi alla «creatività», e così via.
Con questo semplicemente si vuole intendere, appunto, che verrebbero meno gli aspetti improduttivi oggi addebitati alla inutile complicazione amministrativa nella pubblica amministrazione o ai servizi professionali routinari di mediocre originalità, piuttosto che non alla scomparsa delle categorie economiche conosciute e alle loro prerogative, pur insidiabili.
L'elemento che si vorrebbe proporre, infatti, è che per conservare i mestieri esistenti occorra introdurvi nuove competenze, come sostengono molti di coloro che si occupano de «il futuro de».
Epperò, resta da verificare, anzitutto, che tali competenze siano già ora insegnabili e che l'intensità di lavoro necessaria non diminuisca.
Come si anticipava, i latori di previsioni innovative, cosiddette rivoluzionarie, rischiano costantemente di essere smentiti da mercati palesemente restii al cambio di paradigma, ma anche da una loro evoluzione più positiva del previsto: proprio l'intelligenza artificiale, del resto, ha subito processi evolutivi molto più lenti dell'immaginato.
Può essere, per esemplificare, che il BIM, inteso nel suo complesso, effettivamente agevoli la collaborazione tra soggetti e incrementi la coerenza tra di essi, ma, se in futuro fosse davvero così, bisognerebbe domandarsi perché in passato ciò non sia avvenuto.
Sarebbero stati decisivi i metodi e gli strumenti inediti o il grado di inefficacia delle prassi consolidate avrebbe raggiunto livelli ormai insostenibili?
In altri termini, oggi a molti pare inconcepibile che, nell'arco di alcuni lustri, possa scomparire non solo una parte delle attività prevalenti, ma, in primo luogo, che possano venire meno la struttura dimensionale e l'identità degli operatori ordinari.
Un elemento da non sottovalutare è che la digitalizzazione, a differenza della circolarità (intesa in senso lato, specie come ambientalismo, sostenibilità, resilienza, ecc.), appare a molti osservatori e operatori del settore tendenzialmente più mezzo che non fine di mutazioni valoriali nel comparto.
Ciò è strano se si considerano le preoccupazioni che la cognitività computazionale e la robotizzazione provocano a proposito del Lavoro 4.0 in altri settori economici, ma naturalmente l'edificio che produce energia o che garantisce benessere acustico ovvero quello che si ricicla o che contribuisce alla de-carbonizzazione, sono icone più facilmente comunicabili, più dirette.
«Tra tradizione e innovazione» può, quindi, risultare tanto un messaggio consolatorio o prudenziale che suggerisce un miglioramento del settore, senza alterarne i presupposti, quanto una ambizione eversiva che vorrebbe, in poco tempo, rivoluzionarne i connotati.
Nuovi materiali idonei alla manifattura additiva o nuovi automi in grado di surrogare squadre di carpentieri o di impermeabilizzatori si preannunciano con assiduità, tra gli altri, come fatti probabili della digitalizzazione, ma se le maggiori novità derivassero da fattori immateriali, quali il deep o il machine learning, è evidente, allora, che il presupposto consisterebbe nella cessione di conoscenza a sistemi in grado di recepire, formalizzare, elaborare i saperi trasmessi.
Si pone, per esemplificare, una certa enfasi sulle BIM Library, intese come piattaforme da cui gli utenti, gli operatori, possano attingere in maniera ordinata e sistematica per popolare di «oggetti» i propri modelli informativi.
In verità, la sfida, più che nel mettere a disposizione degli attori del settore i dati e le informazioni, consisterebbe nel ricevere da essi, di ritorno, secondo modalità convenzionali, quegli «oggetti» elaborati nelle pratiche quotidiane, proprio al fine di dar vita alla base di conoscenza utile a rafforzare machine learning, deep learning, artificial intelligence.
La qual cosa, tuttavia, vorrebbe dire che gli attori potrebbero contribuire alla loro marginalizzazione?
Potrà davvero avvenire consciamente tale trasferimento di dati, informazioni, conoscenze a knowledge base, da parte di un ecosistema che, in un contesto analogico, ha sempre cercato, pour cause, di trattenerli, parzializzarli, opacizzarli?
Oppure esso avverrà in nome dell'alleviamento di noia o fatica derivante da procedure ripetitive?
A lungo, ad esempio, è stato, nei termini analogici, presente una conflittualità tra un'accademia che produce, oltre che trasmettere, sapere e mercato che di quel sapere ha necessità, ma che rimprovera alla prima di non generarlo o diffonderlo tenendo conto delle variabili operative: le esperienze dei corsi biennali offerti dagli ITS sono testimonianza di questo bisogno, peraltro, complementare con l'offerta più «alta».
In questa sede non si intende pretendere di divisare e di divinare un futuro che seguirà certamente vie specifiche, che si rivelerà più celere in ciò che supponiamo più lento e viceversa, ma sicuramente gli interrogativi sull'avvenire sollecitano questioni attuali di carattere prettamente identitario e strategico.

Potranno sopravvivere offerte formative, eventi fieristici, rappresentanze, nelle forme a noi note attorno al 2030 o al 2050?

Non si tratta palesemente qui di porre in discussione, forse irrealisticamente, l'esistenza dei corsi di laurea negli ordinamenti attuali, delle esposizioni di beni tangibili o delle associazioni di categoria (benché alcuni lo facciano periodicamente), bensì di comprendere la coscienza diffusa dell'entità del cambiamento, ma pure del suo desiderio.
Molti ritengono chiaramente che le prospettive del settore consistano nell'aumentare gli investimenti pubblici e privati in senso quantitativo, nell'orientarli, in buona parte, almeno per gli aspetti non infrastrutturali, alla riqualificazione energetica e al miglioramento sismico di «tutto» il patrimonio edilizio sulla base di una giusta razionalità supportata dai sistemi informativi geospaziali: senza rimettere radicalmente in gioco la natura degli operatori e dei prodotti (immobiliari), semplicemente riorientando gradualmente le azioni e le skill esistenti.
Rigenerare «con leggerezza» il costruito, senza necessariamente demolirlo e ricostruirlo, mantenere gli occupanti insediati, utilizzare metodi e strumenti della prefabbricazione per il recupero, sono alcune delle opzioni più ricorrenti che andrebbero a rilanciare il mercato, così come è, sia pure rafforzato dalla innovazione incrementale.
Ma vi è anche chi sostiene che, in molti casi, una nuova costruzione e una edilizia di sostituzione, che urterebbe una tendenza culturale «progressista» radicatasi, sia più giustificata di un mantenimento a oltranza (conservazione trasformativa?) dell'esistente, che i dispositivi della Smart Home e del Cognitive Building riflettano una nuova attitudine degli abitanti e dei prodotti immobiliari, divenuti meno «residenziali» e maggiormente «dialogici», che una filosofia dell'assemblaggio fuori opera, pur sartorialmente e individualmente (non serialmente) basata sul rilievo digitale, di per se stessa rischi di replicare gli errori e le illusioni di una passata stagione della industrializzazione edilizia.
La letteratura scientifica più avanzata, quella che si concreta nei Journal internazionali, racconta, in maniera puntuale (episodica), comunque, di promesse di grandi stravolgimenti: la disruption, sempre invocata, ma il trasferimento tecnologico al mercato è più limitato di quanto i paper scientifici non inducano a ritenere.
Molto spesso, poi, i programmi di ricerca finanziati pubblicamente producono esiti discutibili, mentre alcuni soggetti privati sperimentano autonomamente con maggiore successo soluzioni efficaci.
I media destinati agli operatori del mercato domestico pongono l'attenzione maggiormente a una condizione di ripresa nei termini delle categorie tradizionali, benché corredati da riferimenti a soluzioni avanzate, più per la circolarità della «Nuova Edilizia» che non per la sua digitalizzazione.
Nel mezzo, ad esempio, all'interno delle offerte tecniche nelle procedure competitive, si trovano i racconti che promettono grandi soluzioni inedite, più o meno credibilmente, soluzioni non sempre destinate a ritrovarsi nell'esecuzione dei contratti.
La nozione di Industria 4.0 è ancora precaria e i risultati, pur incoraggianti, del Piano Nazionale relativo sono ovviamente provvisori e basati sinora principalmente sugli aspetti strumentali, quelli forse più semplici da comprendere, epperò occorre constatare che vi è stata una forte adesione del versante dell'Offerta, dei tessuti produttivi, a una politica industriale del governo in materia che aveva un respiro di medio-lungo periodo e che possedeva natura sistemica.
Anche nel settore delle costruzioni, alla stessa stregua, anzitutto sul piano legislativo, sia a livello comunitario (dall'energy efficiency alla clean energy) sia a livello nazionale (dalla riforma della Domanda Pubblica e del codice dei contratti pubblici alle agevolazioni e incentivazioni legate ai «bonus»), molti provvedimenti sono stati implementati con ricadute sostanziali sui processi, sui progetti e sui prodotti, così come alcune importanti strategie relative alla mobilità intelligente, lenta e veloce.
Tali provvedimenti, ovviamente, hanno incontrato molte contestazioni puntuali nel merito, oggetto di opposizioni e di critiche, oltre che di elogi, entrambi anche di segno antitetico tra loro, al proprio interno, di cui qui non si può rendere conto: essi, prevedibilmente, si accentueranno in prossimità della campagna elettorale.
Per chi si occupa della transizione tra «tradizione» e «innovazione» resta un interrogativo: in che maniera una strategia industriale di medio-lungo periodo per il settore delle costruzioni possa essere condivisa, ammesso che le rappresentanze e gli interessi in gioco riescano a esprimere una difficile unitarietà e ad attuare azioni sistemiche?
Esiste, nell'accademia, come nei decisori politici ed economici, una capacità di sintesi che traguardi una idea e un immaginario del 2030, tra oltre due legislature, in cui il cambiamento sia driver di convenienze superiori a quelle odierne?
Oppure, all'interno di molteplici, pur legittimi e persino comprensibili conflitti, l'introduzione dell'«innovazione» sarà assai temperata dalla «tradizione», costringendo i «profeti» a reiterare inutilmente le previsioni «rivoluzionarie»?
Sulla circolarità e, soprattutto, sulla digitalizzazione, altrove si sono create grandi attese, almeno sul piano nominale, puntando sulle «promesse» che non si sono, poi, necessariamente avverate.
Allo stato attuale perseguire una simile linea di azione sarebbe sconsigliabile, alla luce degli accadimenti: sarà, invece, possibile convincere il mercato, nelle sue molteplici forme, a interiorizzare queste categorie quali fattori competitivi?
Potrebbe essere questo un interrogativo cruciale da porre nei mesi che ci separano dalle assisi elettorali.