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Lavori edilizi: in caso di immobile in comproprietà serve il consenso globale! I dettagli

Tar Calabria: nel caso di intervento su immobile in comproprietà, il comune deve accertare il consenso dei comproprietari

Immobili in comproprietà: qualsiasi lavoro richiede l'assenso di tutti

Non si possono effettuare dei lavori di ristrutturazione, consistenti nel riallacciamento degli impianti elettrici, idrici e sanitari, rifacimento della pavimentazione interna, nella demolizione di alcune tramezzature interne al fine di ricavare due nuovi vani, creazione di un  nuovo vano porta, modifica di un vano porta esterno in un vano finestra, apertura di un nuovo vano porta, all'interno di un appartamento, senza avere il consenso di tutti i comproprietari dello stesso.

E' l'importante - ma a volte dimenticato - principio sottolineato nella sentenza 56/2019 del Tar Calabria, dove si evidenzia che a fronte di un intervento edilizio che risulti soggetto al preventivo rilascio di un permesso di costruire (art. 20 dpr 241/90) ovvero che rientri nel novero di quelle attività che possono essere realizzate previa segnalazione certificata (SCIA), sia essa o meno alternativa al permesso di costruire (artt. 22 e 23 dpr 380/2001), la pubblica amministrazione è sempre tenuta ad accertare, con serietà e rigore, che il soggetto interessato abbia titolo per attuare detto intervento.

Comproprietà di un immobile e lavori edilizi: cosa va accertato dal comune

Più precisamente - sottolineano i giudici amministrativi - "la p.a. deve accertare che l’istante sia proprietario dell’immobile oggetto dell’attività edilizia proposta o che, comunque, abbia un titolo di disponibilità tale da giustificarne la realizzazione (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. III, 02 novembre 2018, n.1640; Cons. Stato, sez. IV, 25 maggio 2018, n. 3143; sez, VI, 22 maggio 2018, n. 30487; sez, IV, 7 settembre 2016, n. 3823; sez. V, 4 aprile 2012, n. 1990)".

Non solo: secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ogni qual volta è nota la situazione di comproprietà dell’immobile oggetto di intervento, l’ente locale è tenuto ad accertare che vi sia l’assenso di tutti i comunisti coinvolti, senza che possano essere opposte, al fine di escludere la necessità di tale assenso, vicende sostanziali e processuali che presuppongono accurate ed approfondite indagini circa i sottesi rapporti civilistici (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 05/04/2018, n.2121; sez. VI, 4 settembre 2012, n. 4676; Sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 6332; Sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1654).

Lavori edilizi: senza assenso dei comproprietari il titolo è illegittimo 

Nel 'nostro caso', il ricorrente - che si è visto recapitare l'ordinanza di demolizione per gli interventi effettuati nell'appartamento in comproprietà con la sorella - avrebbe dovuto allegare alla SCIA l'atto di assenso della sorella stessa, in quanto titolo di legittimazione alla realizzione dei lavori.

Tale mancanza ha legittimato il comune a richiederne la produzione a tutta una serie di ulteriori documenti di cui la SCIA, invece, risultava carente, con la precisazione che, in mancanza, l'attività edilizia sarebbe stata radicalmente vietata.

Ed invero, si legge nella sentenza "l'art. 19 comma 1, l. n. 241 del 1990 pone a carico di colui che presenta la segnalazione certificata di inizio attività l'onere di corredarla di tutta documentazione richiesta dalla legge sicché soltanto una segnalazione completa dei relativi allegati, per un verso, legittima l’avvio dell'attività e, per l’altro, consente al Comune di effettuare il controllo nel termine ivi assegnato (comma 6 bis art. 19 citato), ossia entro quel termine il cui superamento è ostativo all’esercizio del potere inibitorio, se non in presenza delle condizioni di cui all’art. 21 nonies l. n. 241/90" (cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 18.06.2018, n.587; TAR, Campania, Napoli sez. III, 29.05.2015, n.2993).
 
Ebbene, a fronte della richiesta di integrazione documentale da effettuare, per come indicato dal Comune, entro il termine di 30 giorni, il ricorrente non ha prodotto alcun atto di assens
o proveniente dalla comproprietaria dell’immobile oggetto di intervento.
 
Tale omessa produzione, giusta il disposto di cui all’art. 19 comma 3 l. n. 241/90 - a norma del quale “in difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata” - ha determinato il divieto di prosecuzione dell’attività sulle porzioni di immobile di proprietà comune e, quindi, l’inefficacia della SCIA. Ne è conseguito il carattere abusivo delle opere realizzate sull
e porzioni di proprietà comune, delle quali l’amministrazione ha legittimamente ordinato la demolizione, mediante l’adozione del provvedimento oggetto di causa.
 
In definitiva, l’ordinanza di demolizione, per come sopra evidenziato, trova titolo nell’inefficacia della SCIA conseguente alla mancata produzione, per come richiesto dall’amministrazione, dell’atto di assenso proveniente dalla sorella del ricorrente alla realizzazione delle edilizie opere edilizie sulle porzioni di proprietà comune. Tali opere devono, quindi, ritersi abusive, con conseguente legittimazione del comune ad ingiungerne la demolizione.
 

La corretta identificazione delle opere abusive

C'è però un altro aspetto interessante della vicenda, poiché per il Tar risulta fondato quel gruppo di censure tese a contestare la motivazione che sorregge l’ordinanza n. 17/2018 ancorché, esclusivamente, sotto il profilo della sua intima contraddittorietà nonché poca chiarezza quanto all’esatta identificazione delle opere edilizie oggetto di demolizione.
 
Ciò perché l'onere motivazionale correlato all’adozione di un’ordinanza di demolizione risulta assolto in presenza di una analitica ed inequivoca descrizione dell’abuso edilizio, senza che la pubblica amministrazione sia tenuta a giustificare la decisione di procedere al ripristino dello status quo ante in luogo della comminazione di sanzioni alternative (cd. fiscalizzazione dell’illecito). Tali sanzioni, infatti, secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, afferiscono, eventualmente, alla fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione che costituisce atto dovuto e vincolato.
 
Qui, però, questo onere motivazionale non è stato assolto in pieno: nella motivazione, il comune ha considerato che alcune opere realizzate “non possono essere sanate in quanto realizzate su parti comuni senza il necessario atto di assenso dei comproprietari”, omettendo tuttavia di chiarire se tali opere fossero state, effettivamente, oggetto della sanatoria del 2017 che, viceversa, secondo le allegazioni dell’istante, non avrebbe riguardato le porzioni di immobile di proprietà comune (sub 1) bensì soltanto quelle di proprietà esclusiva.
 
Il Comune ha, inoltre, verificato la “parziale difformità delle opere realizzate rispetto ai titoli abilitativi edilizi rilasciati ”, senza tuttavia chiarire quali fossero titoli abilitativi di riferimento - se la SCIA del 2016 ovvero quella in sanatoria del 2017 - e quali fossero, nello specifico, le opere realizzate in maniera difforme e, quindi, abusive.
 
Non essendovi certezza in merito all’esatta identificazione delle opere ritenute illegittime, alla loro complessiva consistenza ed alle ragioni sulla scorta delle quali sono state ritenute abusive, è possibile ritenere assorbito l’ulteriore motivo di gravame relativo alla pretesa erronea qualificazione dell’abuso edilizio ai sensi dell’art. 34 DPR n. 380/2001.
 
In conclusione, il Collegio ritiene fondata esclusivamente la censura inerente il deficit motivazionale. Ne consegue l’annullamento dell’ordinanza di demolizione, con l’obbligo dell’amministrazione comunale di rideterminarsi, conformandosi alle statuizioni della sentenza. 
 
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